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Il piano 5.0 secondo la vision europea e le politiche nazionali che prevedono importanti investimenti e l’uso dei fondi europei per spingere la transizione

Resoconto della I^ sessione di approfondimento del programma A+Forum 2024 | 7 giugno 2024 | Autore Nicolò Zandoli – Turtle S.r.l

Sin dagli anni ’70 e ’80 l’Europa ha iniziato a prendere coscienza della necessità di un approccio più sostenibile verso l’energia e l’ambiente. Le crisi petrolifere degli anni ’70 hanno evidenziato la vulnerabilità dell’Europa alla disponibilità di combustibili fossili, spingendo i governi a considerare fonti di energia alternative e più sostenibili. Successivamente il Trattato di Maastricht del 1992 ha formalizzato l’impegno dell’UE verso la sostenibilità, integrando la politica ambientale in altre politiche comunitarie. Nello stesso anno, il Vertice della Terra a Rio ha portato alla creazione dell’Agenda 21, spingendo l’UE a implementare misure per lo sviluppo sostenibile. È negli anni 2000 che l’Europa intraprende alcune iniziative decisive; infatti, il primo impegno concreto verso la decarbonizzazione viene sottoscritto dal Protocollo di Kyoto (1997), mentre con il Pacchetto Clima-Energia del 2008 vengono introdotti obiettivi ambiziosi per il 2020, tra cui la riduzione del 20% delle emissioni di gas serra, un mix energetico che preveda almeno il 20% dell’energia da fonti rinnovabili e un miglioramento del 20% dell’efficienza energetica. Infine, l’Accordo di Parigi del 2015 ha consolidato l’impegno a livello globale per affrontare i cambiamenti climatici. Con la sottoscrizione di questo trattato internazionale, giuridicamente vincolante, per la prima volta tutti i paesi del mondo hanno deciso di compiere uno sforzo collettivo per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici e mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali.

Il Green Deal (2020) rappresenta una risposta concreta dell’Unione Europea per rispettare e realizzare gli impegni presi durante l’Accordo di Parigi. Gli obiettivi principali del Green Deal includono la riduzione delle emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 e il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050, la promozione dell’energia pulita e rinnovabile, il miglioramento dell’efficienza energetica e la protezione della biodiversità. Il Green Deal rappresenta, in sintesi, l’ambiziosa strategia della Commissione Europea finalizzata a rendere l’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050.

Per comprendere a pieno la transizione nella quale ci troviamo oggi, è emersa l’impellente necessità di conoscere le motivazioni che hanno portato l’Europa alla redazione del Green Deal. In quest’ottica l’approccio scelto dall’associazione è quello dell’analisi dei dati e dei documenti. In particolare, su indicazione del Prof. Rossini, sono stati individuati tre documenti principali per provare a rispondere alla domanda “Perché il Green Deal?”.

Il primo documento è “Rethinking Society for the 21st Century” (2018), pubblicato dall’ International Panel on Social Progress, che propone la visione di una società sostenibile e inclusiva, evidenziando come lo sviluppo economico debba essere compatibile con la giustizia sociale e la tutela ambientale. Si tratta di uno studio molto serio e attendibile, svolto da 300 scienziati indipendenti. Il documento è interessante perché riporta nella premessa i trend climatici e nei capitoli conclusivi suggerisce alle nazioni le linee guida per l’attuazione del Green Deal. 

“The Only Way Forward” (2019), redatto dall’OCSE, ribadisce l’importanza della sostenibilità come pilastro fondamentale per il futuro economico. L’OCSE invita i paesi membri a integrare la sostenibilità nelle loro politiche economiche e industriali, evidenziando i benefici a lungo termine di un approccio olistico che tenga conto degli impatti ambientali e sociali delle attività economiche. Il documento ci ricorda anche che il Green Deal è una strategia dell’Unione Europea.

Infine, “The Dasgupta Review” (2021) è una revisione sull’economia della biodiversità, che mette in luce la stretta interdipendenza tra le economie umane e la natura. Il rapporto, commissionato dal governo del Regno Unito, sottolinea che la nostra insostenibile gestione delle risorse naturali sta minacciando il benessere delle future generazioni e invita a riconsiderare il modo in cui misuriamo il successo economico, incorporando il valore della natura nei sistemi di contabilità nazionale e promuovendo pratiche che aumentino la resilienza ecologica.

Accettare e condividere il piano d’azione deciso dall’Europa non è facile in un contesto incerto come quello attuale. Innanzi tutto, dal confronto emerge ancora poca chiarezza su chi ha preso queste decisioni per l’Europa e sulla base di quali dati i decision maker hanno redatto il Green Deal. Nel contesto odierno appare evidente la presenza di lobby in grado di influenzare le decisioni, che spesso non sembrano essere disposte ad accettare i cambi di paradigma obbligatori per una transizione sostenibile. Ad oggi i dati sono disponibili, ma spesso l’interpretazione che ne viene data è volta al raggiungimento di obiettivi di parte.

Un’altra incertezza riguarda i limiti fisici e tecnologici che potrebbe incontrare una transizione così radicale. Non è chiaro se le nuove soluzioni tecnologiche su cui l’Europa ha deciso di puntare siano effettivamente possibili, sostenibili e strategiche, soprattutto considerando le caratteristiche geografiche, climatiche e geologiche del continente. Anche in questo caso, i membri del gruppo di lavoro concordano nell’affermare che per fare chiarezza sarebbe utile poter visionare eventuali studi di fattibilità che hanno portato i decision maker a intraprendere determinate politiche. A titolo esemplificativo, durante il dibattito è emerso l’esempio del settore automotive, in cui gli stessi produttori iniziano a mettere in discussione il motore elettrico.

Per riuscire a raggiungere tutti gli obiettivi imposti dal Green Deal è quindi obbligatoria una transizione che richiede l’intervento di tutti i settori dell’economia e un approccio socialmente equilibrato ed equo, che preservi al contempo la competitività dell’Unione. In questo contesto di transizione, pertanto, è mandatorio salvaguardare le persone.

L’Industria 5.0 definisce il quadro tecnologico e operativo per raggiungere gli obiettivi del Green Deal, mentre il Green Deal fornisce le direttive politiche e normative necessarie per guidare questa trasformazione. Industria 5.0 e Green Deal condividono l’obiettivo di trasformare l’economia europea in modo sostenibile e resiliente. Insieme questi due approcci rappresentano un passo fondamentale verso un futuro più verde e prospero per l’Europa.

L’Industria 5.0 costituisce perciò un nuovo paradigma, che promuove la sostenibilità integrando pratiche di economia circolare e rigenerativa nella produzione industriale. Questo modello supporta la transizione verde adottando tecnologie avanzate come l’IoT, l’IA e la robotica per creare processi produttivi più sostenibili e circolari. Il modello previsto dall’Industria 5.0 incorpora anche la digitalizzazione per il miglioramento dei processi industriali. Analizzando il tema della trasformazione digitale e tecnologica portata dall’Industria 5.0 possiamo notare come tutto ciò, se non implementato eticamente, presenti il rischio di creare un’ondata di disoccupazione senza precedenti.

Emerge la necessità di portare nelle aziende una nuova cultura volta allo sviluppo dell’aspetto sociale insito in questa transizione, che permetta di fare anche scelte controcorrente qualora sia necessario. Non tutti però credono che questo aspetto possa integrarsi nel modello di business aziendale, creando nuove opportunità o diventando fonte di vantaggio competitivo per l’impresa. Il focus piuttosto deve restare la competitività dell’azienda e la sua continuità, nonostante i cambiamenti in atto e gli impedimenti che incontrerà.

Come fatto notare durante il dibattito, portare un cambiamento culturale di questo tipo presenterà non poche difficoltà. È stato portato l’esempio del settore automotive, in cui i giapponesi hanno rubato mercato agli americani nel corso degli anni, producendo auto più piccole, che consumavano meno e che presentavano meno guasti durante l’utilizzo, creando un gap mai più recuperato. Il total quality, infatti, ormai è insito nella cultura giapponese e in ogni aspetto della loro vita, non un qualcosa applicato solamente in ambito industriale.

Come sappiamo la sostenibilità è formata da tre pilastri: economico, ambientale e sociale. Se il pilastro economico e quello ambientale sono incentivati rispettivamente dal risultato economico e dalle nuove normative, quello sociale rischia di essere trascurato. Questo non possiamo permettercelo, perché per una transizione sostenibile i tre pilastri devono svilupparsi di pari passo. Il percorso da intraprendere è giusto, ma necessita di una trasformazione culturale accompagnata da indicatori adeguati per una corretta pianificazione. Non possiamo non considerare l’importanza che questi temi hanno assunto rispetto al passato.

Una delle principali differenze tra Industria 4.0 e Industria 5.0 è, infatti, il focus umano-centrico del nuovo paradigma. Mentre l’Industria 4.0 si concentra sull’automazione e l’interconnessione dei processi produttivi per ottimizzare l’efficienza operativa, l’Industria 5.0 integra la tecnologia avanzata con un maggiore focus sul benessere umano, la sostenibilità e la prosperità equa. Questo approccio promuove la collaborazione tra uomo e macchina, anziché la mera automazione e massimizzazione del profitto. Ancora non è chiaro se questa transizione vorrà occuparsi dell’ambito sociale e in quale modo trasferirà tutto ciò agli imprenditori, ma sappiamo che i fondi a disposizione saranno molto cospicui.

A livello europeo, il programma di lavoro Horizon Europe 2023-2025 adottato dalla Commissione Europea, ha un budget di circa 13,5 miliardi di euro destinati a supportare ricercatori e innovatori nell’affrontare sfide ambientali, energetiche, digitali e geopolitiche. Circa 5,67 miliardi di euro sono destinati a obiettivi climatici, mentre più di 4,5 miliardi di euro supportano la transizione digitale. Altri fondi sono destinati alla sicurezza e alla resilienza, con un focus sulla transizione energetica pulita e l’indipendenza energetica dell’Europa.

Più di 600 milioni di euro saranno investiti nelle cinque missioni dell’UE per il 2023, che comprendono miglioramenti nelle autorità locali e regionali per affrontare i rischi climatici, la restaurazione dei rivi e i contratti climatici con le città.

A livello italiano il nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), noto anche come “Italia Domani”, prevede investimenti pari a 191,5 miliardi di euro, con ulteriori 30,6 miliardi dal Fondo Complementare. Gli obiettivi principali del PNRR includono la riparazione dei danni economici e sociali causati dalla pandemia di Covid, l’affrontare le debolezze strutturali dell’economia italiana e la promozione della transizione ecologica e digitale della nazione.Inizio modulo

Seconda sessione di approfondimento: sostenibilità

L’impatto ambientale e dell’efficientamento energetico, come deve essere affrontato perché sia un vantaggio competitivo e non un costo.

La seconda sessione di approfondimento della serie di appuntamenti dedicati al tema dell’Industria 5.0 si è aperta con un’analisi sull’evoluzione organizzativa delle filiere verso il nuovo paradigma della sostenibilità. In particolare, è stato approfondito il punto di vista del piccolo imprenditore italiano, che dagli anni ’90 a questa parte ha visto via via aumentare le richieste di un mercato sempre più esigente.

L’incremento dei costi, della competizione e di una burocrazia sempre più soffocante, accompagnato parallelamente dal manifestarsi ciclico di nuove tendenze, ha portato la struttura industriale italiana ad una situazione di grande crisi. Si è prestata troppa attenzione alle condizioni al contorno senza concentrarsi sulla problematica principale: la carenza di lavoro.

Il tema della sostenibilità rischia di essere un tema burocratico, quando invece dovrebbe essere un tema pragmatico. Alcuni membri del gruppo di lavoro hanno evidenziato come alcuni progetti sembrino volti solamente a un mero adempimento burocratico, presentando gli stessi problemi già visti in rivoluzioni industriali passate e creando scetticismo tra i più.

Nonostante ciò, si è convenuto che questa nuova rivoluzione porta con sé delle nuove ed importanti opportunità. Molto dipenderà da come approcceremo questo cambiamento basato sulla sostenibilità, chiedendoci sempre come poterla trasformare in vantaggio competitivo.

Per provare a rispondere a questa complicata domanda è intervenuto il Prof. Ing. Augusto Bianchini, Professore Associato presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Bologna, nel settore Impianti Industriali Meccanici. Fondatore e CEO dello spin-off Universitario Turtle S.r.l. sui temi della misurazione della sostenibilità ambientale e sociale in azienda.

Non a caso il suo intervento è partito confermando gli stessi dubbi di alcuni di noi. Ad oggi la sostenibilità viene vista dalle aziende come un mero costo e non come una nuova opportunità di business.

Questo equivoco nasce prevalentemente dalla confusione che si crea attorno a questo tema. Basti pensare che nella maggior parte dei casi non sappiamo ancora come misurare la sostenibilità. Siamo abituati a fare valutazioni e prendere decisioni sulla base di dati consistenti e numeri oggettivi, frutto di misurazioni empiriche validate; ma sappiamo come misurare la sostenibilità di un’azienda?

Tra i fattori più rilevanti, quando si parla di impatto ambientale, troviamo sicuramente l’emissione di anidride carbonica (CO2) e di tutti i gas a effetto serra, che trattengono il calore all’interno dell’atmosfera terrestre, contribuendo al riscaldamento globale e ai conseguenti cambiamenti climatici.

Recenti analisi dei carotaggi nel ghiaccio polare hanno evidenziato un aumento anomalo ed estremo della concentrazione di CO2 in atmosfera negli ultimi anni. Nel corso dei millenni la concentrazione di CO2 in atmosfera ha sempre presentato un andamento ciclico, con massimi nell’ordine di 300 ppm (parti per milione). L’analisi degli ultimi periodi, però, mostra una curva in crescita a valori mai visti prima, che ha superato le 400 ppm.

Tale crescita esponenziale avviene contemporaneamente a un altro fenomeno: l’aumento demografico. Attualmente sulla Terra ci sono più di otto miliardi di persone, un numero destinato ad aumentare anche nei prossimi decenni, secondo le previsioni.

Tutto ciò ha reso assolutamente insostenibile il vecchio modello economico lineare, basato sui concetti di estrazione, produzione, distribuzione, consumo e smaltimento, caratterizzato dall’uso intensivo di risorse, la generazione di rifiuti e l’impatto ambientale.

Le risorse non ci sono più per tutti e in particolare per l’Europa, anche a causa delle sue caratteristiche geografiche. Negli ultimi anni, il nostro continente si è trovato quindi a constatare una carenza di materie prime, sedici delle quali appartenenti alle cosiddette CRM (Critical Raw Materials), ovvero materiali considerati cruciali per l’economia dell’Unione Europea a causa del loro impiego in industrie strategiche.

È nato quindi un nuovo modello economico, definito “circolare”, in cui si prevede che il valore dei prodotti e dei materiali venga mantenuto il più a lungo possibile. I rifiuti e l’uso di risorse sono ridotti al minimo e quando un prodotto raggiunge il fine-vita viene utilizzato nuovamente per creare nuovo valore. Un modello di questo tipo presenta già un notevole passo avanti rispetto al modello lineare, poiché, tra le altre cose, prevede una riduzione dell’uso di materie prime, un miglioramento dell’efficienza dei processi, un design orientato all’assemblaggio/disassemblaggio, cicli di vita dei prodotti più lunghi e una riduzione dei rifiuti.

Al modello di economia circolare si è aggiunto il concetto di sostenibilità, che l’ONU definisce come “la condizione di un modello di sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”. La sostenibilità è un modello basato su tre pilastri: ambientale, sociale ed economico. Un modello, quindi, che mira a promuovere uno sviluppo equilibrato, che protegga l’ambiente, salvaguardi il benessere sociale e garantisca la prosperità economica a lungo termine.

In un contesto di questo tipo, che mira alla riduzione dell’impatto dell’impresa, appare evidente l’importanza fondamentale della misurazione dello stesso.

Per quanto riguarda il pilastro economico, il tema della misurazione è un tema ben conosciuto e approfondito, perché presente anche nel modello lineare. La sfida del futuro è riuscire a includere nei modelli di business aziendali anche l’aspetto ambientale e quello sociale. Per evitare la predominanza del pilastro economico, garantendo così un modello equilibrato, il primo determinante passo da compiere è la definizione di un sistema di misurazione affidabile, trasparente e solido anche per il pilastro ambientale e per quello sociale. Solo in questo modo è possibile calcolare l’impatto complessivo delle imprese e realizzare strategie migliorative, perseguendo così l’obiettivo di un impatto positivo.

Uno dei principali problemi, ad oggi, è che il tema della comunicazione è stato anteposto al tema della misurazione. Basti pensare che esistono più di cinquanta enti certificatori privati, che consentono di risultare conformi alle normative tramite le loro certificazioni.

Fino al 2023 anche le direttive vigenti sul bilancio di sostenibilità lo rendevano un semplice strumento di comunicazione, permettendo all’azienda di misurare ciò che voleva, raccontandolo come voleva. Da quest’anno, la CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) impone una normativa per la redazione del bilancio di sostenibilità alle grandi imprese di interesse pubblico con più di 500 dipendenti, introducendo anche auditor preposti alla verifica di quanto dichiarato nel documento.

Dal gennaio 2025 anche tutte le grandi imprese non ancora soggette alla direttiva sulla dichiarazione non finanziaria dovranno presentare un bilancio di sostenibilità, se superano almeno due di questi tre requisiti: più di 250 dipendenti, ricavi superiori a 40 milioni di euro, stato patrimoniale superiore a 20 milioni di euro.

Dal gennaio 2026, invece, l’obbligo riguarderà anche le PMI quotate (ad eccezione delle microimprese), gli enti creditizi piccoli e non complessi e le imprese di assicurazione captive.

Il bilancio di sostenibilità, per come è stato strutturato, prevede anche la misurazione dell’impatto dei propri fornitori e chiede di presentare il proprio piano di transizione verso la carbon neutrality. Verosimilmente, quando le grandi imprese saranno obbligate a presentare il bilancio, si genererà un effetto a cascata che porterà tutte le imprese alla redazione di un report di sostenibilità, anche quelle non soggette a CSRD. Sono infatti già uscite delle bozze per quanto riguarda la redazione di un bilancio di sostenibilità volontario (VSME).

Per rispondere a questa necessità, lo spin-off universitario Turtle S.r.l. ha sviluppato un modello per la misurazione della sostenibilità, chiamato ViVACE.

Questo modello ha come obiettivo la quantificazione e la gestione della sostenibilità aziendale, consentendo di individuare progetti e iniziative per migliorarne la prestazione complessiva.

L’implementazione del modello inizia sempre dalla raccolta dei dati aziendali (ambientali, sociali e di governance), grazie ai quali vengono poi elaborati indicatori tattici e operativi per la gestione della sostenibilità, visualizzati all’interno di dashboard.

Per quanto riguarda il pilastro ambientale, ad esempio, vengono considerate le emissioni derivanti da energia, rifiuti, acqua e trasporti. Il modello è una semplificazione, ma lo scopo principale non è quello di calcolare con assoluta esattezza la totalità delle emissioni aziendali, quanto sapere a che punto è l’azienda e capire cosa può fare per migliorarsi.

L’approccio di ViVACE deve essere infatti quello del miglioramento continuo, un processo che itera le fasi di applicazione del modello, studio e implementazione di azioni migliorative e l’adozione di sistemi di valutazione e verifica dell’impatto.

Per quanto riguarda il pilastro sociale, la sfida sarà fare attecchire oggi aspetti che storicamente avevamo già provato a introdurre nel nostro sistema industriale, ma che non sono rimasti nella nostra cultura. In questo senso un approccio basato sui numeri aiuta a interfacciarsi con gli imprenditori. Sicuramente c’è bisogno di un forte sostegno da parte di chi può aiutare la formazione della cultura della popolazione, come è stato fatto ad esempio in Giappone, partendo dalle scuole, ma evitando il rischio ideologico che ad oggi è ancora molto forte quando si parla di sostenibilità. Va sottolineato come durante il confronto sia emerso che non tutti i membri del gruppo di lavoro reputino questi aspetti come fondamentali e imprescindibili nella definizione di un nuovo modello competitivo.

Il tema fondamentale resta sempre quello di approcciare la sostenibilità e tutti i suoi pilastri come un’opportunità di business, definendo un nuovo modello organizzativo. Limitarsi alla raccolta dati per dimostrare di essere conformi alle normative non è business, ma un semplice costo. Realizzare progetti migliorativi è, invece, una nuova opportunità da cogliere. I progetti vanno valorizzati, ovviamente, anche in termini economici. È la comunione del pilastro ambientale e del pilastro sociale con quello economico a renderci sostenibili.

In quest’ottica è necessario rivedere il concetto di competizione all’interno del mercato. La sostenibilità non può essere considerata una sfida contro gli altri, ma contro se stessi. È necessario camminare e progredire tutti assieme. Anche il fornitore diventa un partner con cui definire accordi, perché la sostenibilità non è di processo, ma di prodotto. Non ci si può più limitare all’idea di rendere un singolo stabilimento a impatto zero, ma l’obiettivo deve essere quello di rendere carbon neutral tutta la filiera.

In un contesto di rivoluzione industriale come quello odierno, dove le aziende sono chiamate a rivedere il loro modello di business e nel caso anche a modificarlo, uno dei fattori chiave caratteristici è la velocità. Tutte le rivoluzioni industriali sono state veloci, ma questa lo è molto di più. Quando si parla di vantaggio competitivo spesso è proprio la velocità il fattore determinante.

Come mostrato dal Professore attraverso alcuni casi studio, sono molte le realtà virtuose che, indipendentemente dalla dimensione aziendale e dal settore di appartenenza, hanno già avviato un percorso di transizione e goduto dei benefici derivanti da un approccio sostanziale di questo tipo.

Guardando il panorama europeo e nazionale, possiamo anche notare come sia già disponibile un’elevata mole di finanziamenti destinati a sostenere questo genere di progetti. Horizon Europe, uno dei principali strumenti di finanziamento dell’Unione Europea, destina all’Italia circa 40 miliardi di euro l’anno.

Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) prevede circa 200 miliardi di euro stanziati in sei anni. La regione Emilia-Romagna destina circa 1 miliardo di euro l’anno. Si pensi anche che, di tutti i fondi attualmente disponibili, soltanto il 2% circa viene utilizzato. Infatti uno dei principali problemi oggi è la difficoltà delle imprese ad accedere a questi fondi. Spesso si cerca di partecipare ai bandi senza sapere come misurare l’impatto generato dal progetto. In questo modo sarà impossibile vincerli. In tale contesto la finanza agevolata rappresenta un booster per riuscire a ridurre il payback degli investimenti. Piani di rientro a cinque anni sono ormai considerati troppo lunghi.