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La missione e l’efficacia del project manager nella creazione di valore per la società

Vanni Sgaravatti – Associato A+network – Consulente di direzione – Presidente centro studi e formazione “Gli incontri di S. Antonino”

Ideologia ed economia

Mi capita spesso, parlando di economia e management di autocensurarmi, eliminando qualsiasi riferimento ad un pensiero ideologico, come se esplicitare tali riferimenti dovesse invalidare la presunta oggettività e credibilità del discorso. Mi sembra che questo strano pudore a parlare di ideologia, sia già di per sé l’effetto di una posizione ideologica. Pensare che la propria visione del mondo non influenzi il modo di intendere le questioni economiche, sia un po’ un tipico ragionamento di chi, più o meno inconsapevolmente, pensa di mettere la vita al servizio dell’economia e non l’economia al servizio della vita.

Quando noi consulenti di direzione lavoriamo nel “micro”, cioè per il bene delle singole organizzazioni, sappiamo bene cosa significa la gestione per obiettivi e sono proprio i metodi consolidati che utilizziamo per supportare l’efficacia, cioè il raggiungimento degli obiettivi, che ci fa avere la sensazione che sia nel “micro” che si crea il valore.

Sappiamo anche cosa significa promuove efficienza in quel contesto, avendo chiaro che cosa vogliamo raggiungere, come misurarlo, come lavorare minimizzando la burocrazia, delegata a quelle funzioni che presidiano l’interfaccia con la comunità e le relative norme e regole. Sappiamo o crediamo di sapere come motivare il personale per renderlo performante.

Quando parliamo di “macro”, di aggregati sociali, allora è istintivo immaginare di esportare lo stesso approccio, dando per scontato che sia sufficiente la missione della crescita per orientare gli obiettivi e i traguardi e quindi bilanciare i contributi pubblico/privato, senza dire verso che cosa occorre crescere. Eppure, nel micro dove facciamo esperienza di efficacia ed efficienza, abbiamo chiaro cosa significa stabilire KPI misurabili e coerenti con la finalità ultima: il valore delle azioni e il profitto dei detentori del capitale.

Un super consulente di direzione potrebbe realizzare un buon piano per la gestione di progetti che contribuiscano a far realizzare gli obiettivi di un governo, quali, ad esempio: in 10 anni, taglio del 50% delle disuguaglianze sociali, accesso alle cure sanitarie specialistiche a tutti i cittadini e un aumento significativo dell’accesso alle cure sanitarie per tutti gli uomini della terra, con un budget, che ne so, di 1000 miliardi di dollari. Ma non credo che lo stesso consulente di direzione predisporrebbe lo stesso piano se venisse chiamato da un altro Presidente, rieletto al posto del precedente, che gli dicesse di volere aumentare in 10 anni la ricchezza di beni, servizi e del capitale del 50%, convinto che avendo una torta più ampia da distribuire, in questo modo diminuiranno anche il numero dei poveri. Anche se dovesse tenere presente, che le regole del gioco prevedono comunque di non sfruttare le risorse al punto da non poterne disporre per aumentare la ricchezza (eccessivo degrado ambientale, sfruttamento di persone non tutelate che altrimenti producono disordini, ecc).

In situazioni di crisi, di svolta e di cambiamento appare evidente che si impongano obiettivi sociali ed economici che riguardano l’intera società a cui concorrono soggetti privati e pubblici.

Ma in questo contesto ci si imbatte, come è noto, nel problema di determinare come misurare il valore e, quindi, l’efficacia delle strategie, tenendo conto degli effetti moltiplicatori, e dei noti fenomeni di “spill over”.

Una certa visione economica degli ultimi decenni ci racconta di uomini che ottimizzano le proprie decisioni e i propri comportamenti sulla massimizzazione dei profitti, l’utilità dei beni acquisiti, dei salari, ottimizzando le scelte tra tempo di lavoro e tempo libero. In questa visione, come diceva la Thatcher, la società in realtà non esiste, ma ci sono solo individui e di conseguenza non esistono obiettivi sociali che determinano la creazione di valore, perché questi sono la somma degli obiettivi individuali. All’interno di questa visione, la soluzione di orientamento, di bilanciamento di motivazioni nel rapporto pubblico/privato non ha molto senso: il Pubblico determina i vincoli, corregge i fallimenti del mercato, non prende parte al “gioco”, non disturba chi opera nel mercato, dove si crea il valore.

Nella visione alternativa, il profitto, come diceva Keynes, è come l’aria, ma le persone che lo perseguono non dovrebbero vivere per respirare. Il capitale di rischio va remunerato, ma il valore dipende dalla direzione che viene data, il Pubblico è un soggetto che co-crea valore, e quindi viene remunerato per i rischi che si assume, quando i ritorni dalla commercializzazione non sono ancora chiari.

Nel primo caso, l’Ecologia è, diciamo, “superficiale”, si occupa della mitigazione del degrado, regola gli eccessi dovuti al fallimento del mercato. Nella visione alternativa, l’ecologia è quella integrale, in cui la qualità e sostenibilità dello sviluppo sono gli obiettivi e in cui la finanza si mette al servizio dell’economia. Del resto, l’importanza della missione che orienta il valore era ben nota ai Gesuiti. Si dice che la cassetta delle offerte per le loro missioni si potesse aprire solo con due chiavi, una conservata dal rettore, quindi il visionario, e una dal procuratore il contabile. La visione e lo sblocco dei fondi devono procedere di pari passo.

Il racconto sul progetto per portare l’uomo sulla luna, riportato nel libro di Mariana Mazzucato “Missione economia”, rappresenta un buon esempio non tanto per parlare nel merito dei grandi progetti della Nasa, ma per sottolineare l’importanza di una visione, come elemento catalizzatore di energie, che, in quel caso, ha alimentato una collaborazione pubblico-privato davvero unica. “Questa visione era però qualcosa di più: aveva indicato un obiettivo da seguire”. Kennedy aveva capito il senso della narrazione pubblica e che l’innovazione e la commercializzazione delle idee si concretizzano lungo la strada verso la soluzione di problemi più grandi (op. cit).

In realtà, quel racconto dovrebbe ispirare come affrontare missioni forse ancora più complesse, come quelle di arrestare un quasi irreversibile degrado ambientale ed una disuguaglianza sociale su scala planetaria, che, per essere affrontate, hanno bisogno di una metamorfosi, di una rifondazione del nostro modo di vedere la realtà, ancor più che di un riformismo che mitighi gli eccessi del nostro modello d sviluppo. In sintesi, se manca una visione di lungo periodo e una vera ideologia di politica sociale e industriale, l’efficienza non riuscirà a risolvere i problemi così radicali posi dalla pandemia e che hanno indotto ad immaginare una nuova fecondità nella collaborazione tra pubblico e privato. Per soluzioni innovative della portata di quelle richieste non sono sufficienti, quindi, azioni tecnico-tattiche e incentivi di settore.

Rivoluzione organizzativa

È molto difficile farsi ascoltare dagli uomini che vivono nelle democrazie quando non si discorre di loro. Gli uomini sono tanto occupati ad agire e le loro occupazioni li appassionano. Sono eternamente in azione ed ogni azione assorbe il loro cuore. La passione che mettono negli affari impedisce loro di infiammarsi per le idee” (Alexis De Toqueville, 1835).

Un ambito dove considerare le persone e la natura (non umana) anche come mezzi per i fini, è considerata un’ideologia “buona e giusta” è quello delle organizzazioni lavorative strutturate per produrre beni ed erogare servizi. Questo sarebbe un luogo ideale dove la rottura del circolo mezzi-fini che rende strumenti sia gli uomini, che la natura (non umana), diventerebbe ancora più chiaramente un’occasione per “cambiare il mondo”, sia per il tempo della nostra vita che la maggior parte di noi passa in un’organizzazione lavorativa, sia perché spesso i bisogni della domanda sono determinati dall’offerta.

Sarebbe però una vera rivoluzione, perché si tratterebbe di considerare le organizzazioni come un luogo dove poter vivere con pienezza le relazioni con gli altri e con “il prodotto”. Organizzazioni ideali in cui non si crea un buon clima interno e si fa sentire come proprio il fine dell’impresa, spesso stabilito da altri, solo per migliorare la performance (la supremazia degli shareholders, i soci portatori di capitali, sugli stakeholders è sancito dalla legge, al di là dei discorsi dei singoli). È quasi un’utopia, perché significa condividere, nelle organizzazioni di lavoro, le proprie emozioni di persona, non alienati dal nostro vero sé ed in cui, se sei il leader, lavori per far sentire tutti tanti eroi, rinunciando al piacere di sentirsi l’unico eroe (siamo unici, ma non siamo unici ad essere unici).

Significa immaginare un luogo di lavoro dove sono considerate parti integranti della vita lavorativa ambiti di autoriflessione come la psicologia (il lavoro su di sé nelle relazioni con l’altro) e ambiti di approfondimento sugli impatti etici delle nostre decisioni (la qualità del proposito evolutivo che dà significato alle nostre relazioni), così da costruire e mantenere la fiducia, rinunciando al controllo dell’altro, che tende ad alimentare una reciproca dipendenza.

Le organizzazioni lavorative non sono luoghi separati da quelli dove nasce la domanda e i bisogni che tali beni e servizi soddisfano. Sono entrambi inseriti, nella stessa cultura e valori, proprio quelli che sembrano essere messi in discussione dalla pandemia. La domanda e il possesso di beni materiali sappiamo bene che definiscono da tempo l’identità, il riconoscimento sociale e quindi influenzano la percezione del proprio valore, e che per questo tendono a definire il legame strumentale della realizzazione di sé e della cura delle relazioni con la crescita dello status sociale. E tutto questo alimenta una spirale di crescita continua dei beni e servizi e della ricchezza materiale ad essa associata.

Se la revisione della vita quotidiana nei luoghi di lavoro, indotta della pandemia, portasse ad orientare davvero gli obiettivi delle organizzazioni verso la soddisfazione dei benefici degli stakeholders e non solo degli shareholders (soci remunerati dal profitto) o portasse verso modelli organizzativi che facciano della qualità della vita relazionale lavorativa non uno strumento, ma un fine in sé, allora il coronavirus avrà cambiato la nostra realtà quotidiana. Ma anche il cambiamento nella vita vissuta all’interna delle stesse organizzazioni, cioè dell’offerta, non solo coglierebbe nuove sensibilità e nuovi bisogni della domanda, ma la rifonderebbe.

Ma se la pandemia inducesse un riesame della vita organizzativa in questa direzione, questo sarebbe accompagnato, come sempre succede, da una tensione a tornare a “come eravamo prima” e qualsiasi strumento può essere utilizzato per cambiare approccio alla vita e alle relazioni o per il suo contrario. Ad esempio, lo smart working o l’intelligenza artificiale, possono diventare strumenti di alienazione o di supporto ad una valorizzazione delle relazioni: se libera il tempo per stare con gli altri (il tempo dello spostamento) o se, al contrario diventa un’occasione per rinchiudersi nel proprio personale lockdown.

Nel settore privato la spinta a ritornare indietro la ritroviamo in strategie “gattopardesche”, con operazioni di facciata, fatta di codici etici e rapporti di sostenibilità di impresa, staccate dal cuore del business o, peggio ancora, con scelte, tipo “prendo i soldi o salvo il salvabile e scappo”. Nel settore, invece, delle organizzazioni pubbliche, la ritroviamo strategie di conservazione della cultura esistente, alimentata da una parte, da una politica sempre più incapace di mediare i linguaggi della retorica elettorale con quelli della fattibilità concreta dei risultati e dall’altra da una cultura del controllo e da una mancanza di fiducia, con conseguente spinta a linguaggi autoreferenziali e aumento della burocrazia.

Il project manager

Se è vero che, secondo il paradigma economico dominante, il Settore Pubblico ha dovuto svolgere il ruolo di arbitro o al massimo di investitore di ultima istanza, delegando al privato ed al mercato la creazione del valore, allora è normale che in quell’ambiente non si siano determinate le condizioni, per sperimentare situazioni di gestioni di rischi, risposte flessibili, soluzioni creative e di esperienze di superamento di fallimenti. Attività che permettono a chi opera di sviluppare competenze e innovazione, come succede spesso nelle realtà private.

Le competenze così sviluppate sembrano far emergere il project manager con esperienze maturate in quelle situazioni, come il profilo che può dare un contributo importante in questa fase di rilancio di progetti così complessi, ad alto rischio di errore. Ma la sperimentazione delle competenze che ritroviamo nella figura tipica del project management è maturata in contesti in cui gli obiettivi sono chiari, misurabili, determinati da un soggetto omogeneo, rispetto alle proprie esigenze: gli shareholders.

Nella prima fase di attuazione di un piano, ad esempio, il “next generation fund”, con missioni di creazione del valore pubblico fondamentali, con interazioni cause-effetto di tipo planetario (globalizzazione dell’economia, pandemia, ambiente), la determinazione del target coinvolge gli stakeholders e relativi interessi, talvolta contrastanti.

Pensiamo, per fare un solo esempio, alla gestione dei brevetti delle tante innovazioni richieste, alla remunerazione dei diversi soggetti, nella fase di sviluppo delle innovazioni. Sono fattori cruciali in questa fase, che devono essere risolti, collegate al raggiungimento degli obiettivi e che condizionano i risultati di qualsiasi comportamento efficiente di un project manager.

Il consulente di direzione o il project manager del settore privato ha sperimentato cosa significa, leadership, relazioni dirette e non mediate dalla burocrazia, concretezza nel rapporto decisioni e risultati. Ed è sulla base di questa esperienza che può essere arruolato e portare un grande valore aggiunto, se tali competenze non rimangono esternalizzate, nei soggetti appaltatori. Ma il contesto operativo in cui si dovrebbero svolgere i processi di attuazione di queste missioni derivate dalla revisione di un modello di sviluppo è molto complesso: gli stakeholder in questi processi e progetti contano, dicono la loro ed il valore a lungo termine per loro non è facilmente misurabile.

È vero che queste difficoltà incidono in modo diverso in relazione al livello: si va, ad esempio, dal commissario per ogni ambito del next generation fund nominato dal Governo al project manager più operativo, ma queste difficoltà incidono in modo significativo anche nel lavoro di quest’ultimo.

È una grande sfida, ma si può nutrire un po’ di fiducia, sapendo che questi profili hanno anche fatto esperienza nel mantenere la rotta, in coerenza con i requisiti strategici del proprio committente, non sempre chiari e lineari. Ma i “nuovi” project manager dovrebbero affrontare queste nuove sfide con umiltà, capacità di ascolto, negoziazione; tenere conto della pluralità dei linguaggi, sia nei rapporti con i diversi stakeholder che con gli stessi utenti, che sono contemporaneamente beneficiari finali del valore del progetto, ma anche co-creatori di quel valore (si pensi, ad esempio, agli obiettivi dello sviluppo dell’economia circolare).