Piazza Calderini 1 - 40124 Bologna
info@aplusnet.it

L’impatto sociale, come deve essere misurato, cosa si dovrebbe fare e quali vantaggi può comportare per le aziende, per le persone e per la collettività

Resoconto della III^ sessione di approfondimento del programma A+Forum 2024 | 27 settembre 2024 | Autore Nicolò Zandoli – Turtle S.r.l

Anche la terza sessione di approfondimento della serie di appuntamenti dedicati al tema dell’Industria 5.0 ha visto come relatore il Prof. Ing. Augusto Bianchini, Professore Associato presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università di Bologna, nel settore Impianti Industriali Meccanici. Fondatore e CEO dello spin-off Universitario Turtle S.r.l. sui temi della misurazione della sostenibilità ambientale e sociale in azienda.

Nello scorso appuntamento era stato affrontato il tema dell’impatto ambientale e dell’importanza della misurazione quando si parla di sostenibilità. Un tema che abbiamo scoperto essere molto oggettivo e basato su una grande mole di dati, dietro al quale possono celarsi importanti opportunità di business.

Quando si parla di impatto sociale, invece, possiamo subito denotare due principali criticità. La prima è la presenza anche di aspetti soggettivi, che rendono gli indicatori non sufficienti per tenere sotto controllo il sistema. La seconda criticità è rappresentata dalla difficoltà riscontrata nel valutare l’impatto economico relativo ad un eventuale miglioramento dell’impatto sociale aziendale.

Possiamo definire l’impatto sociale di un’azienda come l’effetto o il cambiamento, in termini di salute, conoscenze, attitudini, stato (fisico e/o emotivo), condizioni di vita, generato sul singolo individuo e sulla comunità da parte delle attività svolte dall’azienda stessa.

Gli istituiti di credito sono stati i primi a capire che tutto ciò che riguarda l’impatto sociale di un’azienda rappresenta un fattore di rischio, che fino a poco tempo fa non veniva considerato. I questionari di valutazione che richiedono, infatti, includono sezioni interamente dedicate a questo tema.

Nella pratica, la realtà è che le grandi imprese hanno una struttura organizzativa in grado di gestire l’ambito sociale. Come sappiamo, però, più la dimensione aziendale si riduce e più le responsabilità tendono a concentrarsi sulla figura dell’imprenditore, che è chiamato ad avere tutto sotto controllo.

In fondo, anche per quanto riguarda l’impatto sociale, l’obiettivo primario è sempre quello di rispondere alla domanda: “Quanto sei sostenibile?”.

Come abbiamo visto negli scorsi appuntamenti, infatti, da quest’anno in Europa entreranno in vigore una serie di normative che introdurranno nuovi obblighi rendicontativi per alcune categorie di aziende. La più importante tra queste è sicuramente la direttiva CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), che guiderà le grandi aziende e gli enti d’interesse pubblico nella redazione della rendicontazione di sostenibilità e che prevede più di 800 indicatori EFRAG (European Financial Reporting Advisory Group). Questo framework molto complesso porterà a un documento che per la prima volta verrà revisionato da un auditor esterno certificato.

Nell’arco di tre anni, circa il 30%  delle aziende presenti nel nostro sistema industriale verrà obbligato a pubblicare un “bilancio di sostenibilità”, che dovrà considerare l’impatto dell’intera catena di fornitura, generando così un effetto a cascata che porterà anche le aziende più piccole a redigere un bilancio in versione semplificata, seguendo la direttiva VSME (Voluntary Sustainability Reporting Standard for Small and Medium-Sized Enterprises), per riuscire a rispondere alle richieste dei loro clienti che rientrano nella rendicontazione obbligatoria.

Come successo in ambito ambientale, anche per quanto riguarda la misurazione dell’impatto sociale recentemente sono nati molti enti certificatori, che richiedono la compilazione di questionari pieni di domande di carattere quasi filosofico. Per questo motivo, il Professore con la sua startup ha ideato un approccio più pratico e ingegneristico, che nasce da una domanda principale: “Su chi impatta socialmente un’azienda?”.

La risposta ha identificato i quattro pilastri principali del modello sviluppato: i lavoratori, la comunità, i clienti e i fornitori.

La difficoltà principale è stata la totale assenza di materiale quantitativo a livello bibliografico per quanto riguarda la comunità, i fornitori e i clienti. Per quanto riguarda il tema dei lavoratori, invece, già dagli anni Cinquanta si è iniziato a produrre materiale, il che ha permesso di non partire da zero nella costruzione del modello, come nel caso degli altri tre ambiti. I modelli più brillanti consideravano temi quali la tolleranza e l’immigrazione, ma gli indicatori quantitativi non si adattavano bene all’attività aziendale.

Il nuovo modello proposto, chiamato “ViVACE Sociale”, si basa sulla costruzione di piramidi a cinque livelli per ognuno dei quattro pilastri. Ad esempio, per i lavoratori viene utilizzata la Piramide di Maslow, che dispone i bisogni dell’uomo in base ad una priorità. Alla base della piramide, infatti, troviamo i bisogni Fisiologici del lavoratore, quelli che devono essere obbligatoriamente soddisfatti. In seguito, i livelli superiori fanno riferimento a Sicurezza, Appartenenza, Stima e Auto-realizzazione al vertice.

Una volta definiti gli indicatori quantitativi, essi sono stati attribuiti ad uno dei livelli della piramide. Alcuni degli indicatori si basano sugli ESRS (European Sustainability Reporting Standards), altri sono indicatori presi da Eurostat, un database che esegue misurazioni a livello europeo, offrendo così anche un benchmark di riferimento.

Per quanto riguarda l’impatto dell’azienda sulla comunità, gli indicatori quantitativi sono stati costruiti considerando che l’azienda dona alla comunità ore uomo, attrezzatura e denaro. Il tutto è misurabile in euro e rapportato all’EBITDA per tenere conto della dimensione aziendale. Non è una gara contro altri, ma semplicemente contro se stessi. È importante crescere e migliorare nel tempo. Gli istituti di credito considerano questi aspetti perché per loro rappresentano fattori di rischio, ma pensandoci bene anche per l’azienda lo sono.

Consideriamo, infatti, il modello relativo ai clienti. Esso si basa sulla customer experience, sull’abilità dell’azienda nel soddisfare le esigenze dei propri clienti, esplicite o latenti. Alcune aziende, infatti, creano un rapporto con i loro clienti, fidelizzandoli e di conseguenza riducendo il proprio rischio.

Per quanto riguarda il pilastro dei fornitori, il Professore ha raccontato come nel corso della sua esperienza ha riscontrato una lacuna principale nelle aziende: il codice etico. Al giorno d’oggi è sempre più evidente una maggiore attenzione dei giovani talenti agli aspetti etici dell’azienda e ai suoi valori. Ciò è fonte di attrattività e, durante l’iter di assunzione, viene valutato dai giovani prim’ancora della proposta economica. Ovviamente, per dare concretezza al codice etico, risulta fondamentale condividerlo coi propri fornitori, soprattutto se questi si trovano in paesi con condizioni di lavoro diverse da quelle europee.

Spesso è necessario mettere in atto dei meccanismi di controllo per garantire l’affidabilità e la veridicità dei dati.

Una volta calcolati tutti gli indicatori quantitativi, viene attribuito un “Punteggio Gestione” per ogni pilastro, che tiene conto sia del valore dell’indicatore sia della sua posizione nella piramide. La combinazione di questi contribuisce al calcolo di un punteggio complessivo di valutazione dell’impatto sociale aziendale e il tutto viene riassunto in una dashboard.

È bene specificare che l’approccio ideato da Turtle S.r.l. non è certificato e non è fatto per comunicare con l’esterno. Serve a prendere decisioni; ha, quindi, finalità di gestione interna. Lo scopo è quello di fotografare la situazione aziendale attuale, per poi capire come migliorare e definire eventuali piani di transizione.

Come detto in precedenza, alcuni indicatori sono presenti nella direttiva ESRS; quindi, adottando l’approccio ViVACE collateralmente si hanno già a disposizione dati necessari alla compilazione del bilancio di sostenibilità.

Sui dati quantitativi intervengono poi gli psicologi del lavoro, che propongono delle soluzioni migliorative e accompagnano le aziende nella transizione.

La sfida non è quella di ridurre la CO2 o aumentare il fatturato, ma creare un nuovo modello economico che tenga conto dei 3 pilastri: ambientale, economico e sociale. Questa sarà la vera rivoluzione.

Durante il dibattito, però, non sono mancate espressioni di forte scetticismo da parte dei partecipanti alla sessione di approfondimento.

Per quanto riguarda l’aspetto economico, ad esempio, ci si è interrogati sul fatto che ancora nessun modello relativo al pilastro sociale sia in grado di quantificare l’impatto economico di eventuali azioni migliorative per l’azienda. I ricavi o i risparmi che potrebbero derivare dalla transizione imposta dall’Europa sembrano ancora decisamente troppo aleatori.

Al contrario, sono ben quantificabili i costi dovuti alle nuove normative imposte. Il recente report “The future of European competitiveness” evidenzia come spesso i costi per soddisfare i nuovi adempimenti normativi risultano insostenibili per le aziende e rischiano concretamente di minarne la competitività nel panorama globale. Ad oggi, infatti, non è ancora chiaro come si muoverà il resto del mondo sul tema della sostenibilità.

Molti vedono dietro alla nuova strategia intrapresa dall’Europa anche un forte indirizzo politico, al contrario di altre rivoluzioni o transizioni passate. Prendendo come esempio la componente sociale (il tema) della comunità, l’impressione è che si stiano caricando le imprese di responsabilità sociali e politiche che in realtà non dovrebbero competere ad esse, quasi come se la politica trasferisse parte dei propri problemi sugli operatori economici.

Inoltre, addossare alle imprese ulteriori normative e burocrazia rischia di distrarle ancora di più dal proprio core business. Un grande rischio in tutto ciò potrebbe essere relativo al fatto che chi si voleva muovere in questa direzione lo abbia già fatto, mentre tutti quelli che ancora non lo hanno fatto andranno stimolati e si accontenteranno spesso di adempiere semplicemente e formalmente alle normative imposte, cercando di contenere i costi per quanto possibile e rinunciando così a tradurre l’impegno in risultati sostanziali.

La realtà è che non si discutono i pilastri del nuovo modello economico proposto a livello teorico, in primis sulla volontà della Transizione 5.0 di includere anche l’uomo nel modello, al contrario di quanto fatto nella transizione precedente, ma ci sono forti dubbi sugli effetti che essa avrà sulla competitività delle aziende nella sua applicazione pratica.

Sappiamo che a livello ambientale l’Europa è costretta a cambiare strategicamente il proprio modello, soprattutto a causa della mancanza di risorse critiche. Il modello attuale è totalmente dipendente dalla Cina e quello nuovo rappresenta una proposta articolata per tentare di cambiare rotta. Ma se anche per il pilastro ambientale, dove i dati e i risultati sono oggettivi, misurabili e quantificabili più facilmente, si fatica a vedere il vantaggio competitivo che la transizione dovrebbe o potrebbe portare, possiamo desumere quanto sarà complicato far attecchire solidamente la rivoluzione a livello sociale. Modelli teorici e miglioramenti soltanto “probabili” non sembrano sufficienti al momento, anche se i casi virtuosi non mancano, come testimoniato dall’esperienza del Professore.

La sensazione di molti è che la maggior parte delle cose richieste dalle nuove normative siano futili e richiedano comunque un dispendio di risorse, tempo e denaro che le aziende non hanno in questo momento complicato. L’esperienza diretta di alcuni membri li porta ad affermare che tra tutte le tematiche introdotte dal nuovo modello, soprattutto le piccole e medie imprese possano scegliere quali sviluppare e promuovere, a seconda della funzionalità per il loro business.

È emerso, comunque, che in una situazione di recessione demografica come quella in cui versa l’Italia oggi, in cui i giovani talenti scarseggiano, le tematiche introdotte dal nuovo modello, soprattutto in ambito sociale, possono aiutare a migliorare l’attrattività dell’impresa e la propria posizione sul mercato del lavoro, come accennato in precedenza.

Possiamo concludere affermando che ormai la strada intrapresa dall’Europa sembra tracciata e che l’introduzione di nuovi adempimenti normativi imporrà sicuramente dei costi all’impresa. Il nodo centrale sarà riuscire a trovare nuove opportunità di business in questa nuova transizione. Sarà possibile farlo? Ci riusciranno tutti? Le perplessità sono molte. La certezza è che, se l’impresa affronta passivamente la transizione, limitandosi a perseguire la compliance, quasi sicuramente vedrà soltanto aumentare i propri costi. Come visto nell’approfondimento scorso la sostenibilità deve essere business per riuscire a rilanciarci. Il come trasformare tutto ciò in un nuovo vantaggio competitivo e opportunità, però, sembra un compito affidato ancora una volta ai singoli imprenditori e a chi, come noi, li accompagnerà.